C’è la luce in fondo al tunnel: ed è un bagliore accecante, che scalda. Sei mesi rinchiuso in una crisi esistenziale a chiedersi dove fosse finita la sua forza (anche interiore), quella potenza (atletica) che abbinata al fiuto del gol l’aveva eletto erede di Lewandowski: però guardandosi dentro, rivedendo la sua esistenza, subendola, Milik ha sempre saputo che prima o poi sarebbe passata pure la sua nottata, non solo quelle (recentemente) turbolente del Napoli. E ci sono voluti centottantotto giorni, trascorsi nella cupa malinconia, per ritrovarsi, per riscoprirsi, per lasciare che i veleni delle ultime settimane intorno a una squadra divenuta “normale” sparissero d’incanto, con due girate possenti indispensabili per togliersi il Verona dalle spalle. E’ stata dura, e persino durissima, pure in quest’ora e mezza densa di pathos: ma che gusto c’è senza sofferenza? E Milik che ci ha lasciato due legamenti, ha perso anni e visto treni sfilare via veloci, può gustarsi la propria rinascita e quella d’un Napoli che di cuore ne ha avuto e di testa.
CHE VERONA! C’è voluta calma, pazienza e intelligenza, una lucidità disarmante e una leggerezza cerebrale per evitare di crollare: perché avendo solo e soltanto da perdere, il Napoli per vincerla ci ha dovuto mettere la propria acuta interpretazione. Per un tempo, ed è stato il primo, lo spettacolo s’è intravisto eccome in un calcio godibile, che però è durato un quarto d’ora, impregnato anche di personalità: poi, quando il corpo ha chiesto una pausa, il Verona ha mostrato la sua faccia tosta, s’è preso per un po’ la partita e ha lasciato dondolare il San Paolo nella paura. Là dove Ancelotti ha osato (4-2- 3-1 d'apertura incoraggiante per occupare anche le linee), Juric ha esagerato, s’è messo a difendere a quattro nella fase passiva, ha consentito che venissero sprigionati senso geometrico, “cattiveria” e “prepotenza” e che il Napoli si aggrappasse ad un Santo (processo di beatificazione in corso) di nome Alex Meret. Ciò che gli umani non immaginano, succede in cinque secondi “terrificanti”, con il portiere che va giù sulla rasoiata di Lazovic, si rialza per respingere il colpo di testa a porta spalancata di Stepinski e poi “esplode” sulla conclusione di Pessina e il boato è meritato, un senso di liberazione del San Paolo e di ossessione per Juric.
PRESSING. Il Verona ha gamba, sta incollato uomo su uomo ovunque, s’accorcia e s’allarga e poi deve sparire per forza, perché pure i robot; e il Napoli, da cui Ancelotti s’attende equilibrio, coglie l’unico vero superficiale disimpegno altrui, su uscita da corner, che Callejon e Fabian trasformano in perla per il tap-in di Milik, che rigenera non un uomo ma una squadra. Il Napoli parte seconda, quello della ripresa, ha lampi di acutezza tattica, non si sfilaccia come prima (e quando Zielinski prende il posto di Younes non si disunisce neppure), non trascina ma rimane inchiodato al proprio ruolo, quello che gli concede lo status: fa la partita con decisione, e nonostante un possesso palla inferiore, limita le sofferenze, entra nel campo, tira di più (dodici volte) ve anche meglio, sta nella trequarti gialloblù, riesce a sentirsi coperto e ad arrivare prima a Milik (dalla punizione di Insigne, altra girata terrificante) per il raddoppio, poi s'allunga sino al palo (quello di Mertens) ed infine alla serenità interiore che certo gli è mancata. E il venticello che s’è avvertito durante la sosta smette d’essere fastidioso, sembra quasi una carezza sul volto del Napoli, un invito a guardare con rigoroso ottimismo al futuro: vai, la strada per i sogni è ancora lunga.
Autore: Stefano Bentivogli / Twitter: @sbentivogli10
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