Correva l’estate del 1972: nasceva il secondo governo Andreotti, i terroristi neri Franco Freda e Giovanni Ventura erano incriminati dai giudici milanesi per la strage di Piazza Fontana, all’Hotel Watergate di Washington cinque intrusi venivano beccati con le mani nella marmellata mentre installavano microspie nella sede del comitato nazionale del Partito Democratico, Eddy Merckx firmava la doppietta Giro-Tour, sul traguardo di Gap Franco Bitossi perdeva negli ultimi metri nel modo più atroce il mondiale di ciclismo a scapito di Marino Basso, la Germania Ovest vinceva il titolo europeo di calcio battendo nella finale dell’Heysel l’Unione Sovietica, a Monaco di Baviera tutto era pronto per ospitare la ventesima edizione dei giochi olimpici. Erano gli anni in cui all'Hotel Gallia il calciomercato aveva tempi ristretti, e nei rispettivi ritiri estivi le squadre salivano con le rose al completo. Sembrano secoli fa. Bei giorni.

Sbarcato in Italia nel 1958 da fresco campione del mondo con la casacca carioca, in sette anni al Milan José Altafini vinse due scudetti e la coppa dei campioni del 1963 nella finale di Wembley quando fu la sua doppietta a stendere il Benfica di Eusebio. Trasferitosi al Napoli nel 1965, insieme a Omar Sivori fece sognare i tifosi partenopei per altre sette magnifiche stagioni. Entrato nella fase discendente della sua parabola, l’oriundo venuto dal Brasile aveva trentaquattro anni quando quell’estate del 1972 fu chiamato alla corte della Signora. In attacco la Juventus poteva contare sulla coppia titolare composta dal duo Anastasi-Bettega; Altafini divenne così l’arma in più da utilizzare col dosatore, la carta da giocare dalla panchina per far saltare il banco. José si calò nella parte con l'entusiasmo di un ragazzino. Fu una geniale trovata dell’allenatore boemo Cestmir Vycpalek, già zio di Zdenek Zeman: anche grazie al contributo di Altafini la Juve aggiunse due scudetti alla collezione in bacheca (il secondo nel 1975, a spese proprio del suo Napoli, gli valse sotto il Vesuvio l’epiteto di «core ’ngrato») e raggiunse la prima finale di coppa dei campioni della sua storia, persa (sarebbe diventata un'abitudine) nel 1973 a Belgrado con l’inarrivabile Ajax di Cruijff. Il suo sistematico impiego a spezzatino nei finali di gara divenne il modello «alla Altafini». Un modello vincente per la Juve e per un giocatore ormai indirizzato verso il tramonto ma, se utilizzato nel modo giusto, ancora in grado di metterci la zampata buona. Calzettoni abbassati alle caviglie, indossò la maglia bianconera attillata su qualche chiletto in eccesso in 74 occasioni corroborate da 25 reti, la maggior parte delle quali risolutrici.

Fu una scommessa vinta, una storia di tanti anni fa ma sempre attuale. Magari anche oggi qui a  Verona dove l’infinita querelle sull’impiego di Giampaolo Pazzini continua a tenere banco fino alla noia. La società ha puntato e investito parecchi quattrini su Samuel Di Carmine, ora alla ricerca della miglior condizione dopo l’infortunio che lo ha costretto ai box. Tocca a lui, lui è il prescelto, ed è quindi giusto dargli fiducia. Pazzini è, insieme a Tupta, preziosa alternativa, ma non più cuore del progetto com’era invece due anni fa, quando i suoi gol a grappoli ci spianarono la strada alla risalita. A scanso di equivoci va detto che a fargli ombra sono le ruggini, e non Fabio Grosso o noi poveri scrivani. Quest’anno Pazzini è stato finora impiegato cinque volte, di cui tre dal primo minuto e due subentrando a partita in corso. Ha segnato tre gol in una sola domenica: due rigori e un tap-in facile facile contro i modesti peones del Carpi. Lo abbiamo poi rivisto titolare all'opera al Bentegodi contro Spezia e Lecce, due prestazioni in evidente stato di debito che altro non hanno confutato se non i dubbi sulle sue reali possibilità di reggere il peso dell’attacco.

Sotto il diluvio di Venezia il Pazzo è rimasto in panchina: poteva entrare per l’ultimo scorcio? Forse sì, ma nel fango di Sant’ Elena al momento di aggiustare il tiro l’allenatore ha preferito puntare sulla prestanza fisica di Cissè (così così il suo impatto) e la freschezza di Tupta (decisamente meglio, ma tardivo il suo ingresso). Scelte opinabili per carità, ma che ci stavano. Diciamola tutta: ormai è troppo tempo che ogni volta che Pazzini finisce in panchina, ne scaturisce uno stucchevole caso, come se ci trovassimo dinanzi ad un delitto di lesa maestà. Un cul de sac dialettico (nemmeno la Gazzetta dello Sport si astiene da graffi al vetriolo) di cui francamente non se ne può più. Eppure ci pare che il campo con il suo insindacabile giudizio abbia già detto la sua. E allora come se ne esce? C'è un Verona che gioca oggettivamente bene, costruisce, ma là davanti stenta a capitalizzare tanta mole di lavoro. Ha bisogno sì di un cecchino, ma pure di reattiva mobilità negli spazi. Piaccia o no, Pazzini risponde alla prima esigenza ma, ahinoi, non più alla seconda. Ha compiuto lo scorso mese di agosto 34 anni, guarda caso tanti quanti ne aveva José Alfafini quando passò alla Juve nella lontana estate del ‘72. Il metodo «alla Altafini» fu una lezione di sport e anche di più. Rispolverarlo e rimodellarlo a distanza di anni qui a Verona su taglia a misura di Giampaolo Pazzini non ci  pare un reato di eresia per cui accendere i roghi in piazza.  Quell'esercizio di Real Politik pallonara fece allora scuola, e lo può fare anche oggi. Chissà che per il bene del Verona (e, perché no, anche del giocatore) non sia questo il modo di mettere tutti d'accordo una buona volta per tutte e uscire dall’asfissia di un intrigo messo su tra un ricamo dattilografo e l'altro. Le buone idee non vanno mai in soffitta. Nemmeno quelle «alla Pazzini» ovviamente. 

Sezione: Editoriale / Data: Mar 23 ottobre 2018 alle 18:30
Autore: Lorenzo Fabiano
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