Re d’Albania, l’Europeo di Francia, le panchine di Spagna con Levante e Alaves. Gianni De Biasi è molto di più dell’allenatore che una volta in Italia tutti volevano, quello del calcio un passo avanti come capì anche il Torino che nel 2006 con lui se ne andò in Serie A. Aspetta ora De Biasi, tempo fa sul punto di diventare cittì dell’Italia. L’Albania però non volle saperne di liberarlo. Desidera tornare all’estero De Biasi, fare grande un’altra nazionale. Di recente l’ha chiamato la Spal. Lui ha rifiutato con la solita cortesia, senza perdere di vista però il mondo in cui ha fatto tanta gavetta. Quello di provincia, partendo dalle giovanili di Bassano e Vicenza. Facendo miracoli a Modena e il suo dovere al Toro, fino a cambiare in sei anni il corso della storia d’Albania. Ora di nuovo spettatore, da vicino, di una Serie A che non l’affascina più come una volta. «L’Italia ha perso terreno rispetto al resto d’Europa. E per le piccole», attacca De Biasi, «il confine è diventato sottile. O hai delle basi solide oppure andare in Serie B e dover ripartire rischia di diventare il destino di tante società».
Vuol dire che ad esempio il Verona non tornerà più quello di una volta? «Confrontare epoche diverse è sbagliato. Vale per i giocatori, vale per i club. Difficile ora rinverdire i fasti del Verona di Garonzi. Allora c’era un altro spirito, in generale era un altro calcio. Adesso l’approccio e la gestione devono essere per forza manageriali. Ora bisogna saper programmare, essere lungimiranti, lavorare sui giovani, sapersi muovere nel mondo. E conoscere la propria dimensione. Devi sapere se sei carne o pesce. Specie in una piazza come quella di Verona, con una tifoseria molto stimolante ma anche ed esigente. In questo sembra un po’ quella del Torino. Pensando però prima di tutto a raggiungere ogni anno 41-42 punti per avere la certezza di restare in Serie A».
Per salvarsi stavolta però ne basteranno meno… «Ci sono quattro squadre per due posti, ci metto dentro anche il Sassuolo che fra l’altro non ha l’abitudine a giocare per il risultato minimo ed è partito per obiettivi diversi. Il Benevento lo vedo ormai staccato. L’anno scorso il Crotone ha detto che il campionato finisce all’ultima giornata, anche se l’Empoli ci ha messo del suo. Il Verona non è ancora spacciato».
Una sua ricetta? «Crederci sempre. E avere dalla propria gente di esperienza, di carattere, forgiata da tante battaglie. Sono quelli i giocatori che alla fine contano».
Quante possibilità dà al Verona? «Pecchia sta cercando di tenere unita la squadra, pur fra tante difficoltà. Con la fascia media che si è alzata di un bel po’ è un attimo perdere cinque o sei partite di fila. Continuare come se nulla fosse non è facile, ma il compito di un allenatore è questo. Soprattutto per chi è al penultimo posto».
Che si aspetta da Pazzini al Levante? «Avrà dei problemi, al di là del rischio di retrocedere. Il Malaga è ormai andato, vedremo quel che sarà il Deportivo con Seedorf. Poi c’è il Las Palmas e quindi il Levante. Di sicuro Pazzini troverà un tasso tecnico molto alto, oggi una squadra di media classifica della Liga può mettere in difficoltà una di fascia alta della Serie A. Col Real ha fatto subito gol, ma al di là di quel colpo credo farà fatica tenendo conto anche che negli ultimi mesi al Verona ha giocato molto poco».
Perché il calcio all’estero è migliore che in Italia? «C’è una diversa fisicità, è l’aspetto che noti subito. In Inghilterra i giocatori hanno una copertura del campo incredibile, in Spagna c’è grande abilità col pallone. C’è anche una visione disincantata rispetto alle nostre concezioni, lì il calcio è concepito per imporre il proprio gioco e non per subirlo. Troppa tensione in Italia».
Anche i tifosi di Spagna e Italia sono diversi? «In Spagna il rapporto fra i supporters e la squadra è molto diverso che in Italia, anche nei club di classifica medio-bassa in cui di risultati positivi se ne vedono pochi. Con l’Alaves mi è capitato di vincere una partita dopo un lungo momento di difficoltà».
Che Torino sarà al Bentegodi? «Con la Juve non è stato il vero Toro. Discreto, ma quando trovi certe squadre diventa difficile fare meglio. Il Torino però è cresciuto molto, soprattutto nella fase difensiva con gli arrivi di Sirigu, di un bel giocatore come N’Koulou e di uno di grande esperienza come Burdisso».
Quante volte De Biasi è stato vicino a Verona? «Nel 2005 incontrai Campedelli e Sartori. Avevo in ballo anche però l’Udinese, con la possibilità di giocare la Champions. Alla fine andai a Torino. Il calcio è così, fatto anche di momenti».
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