Andiamo a memoria. Vi preghiamo di correggerci se non l’azzecchiamo, ma ci pare che una protesta di massa come quella che si profila venerdì in occasione della partita al Bentegodi contro il Palermo, mai ci sia stata nella lunga storia dell’Hellas Verona. A dire il vero, la curva sud rimase vuota in un Verona-Torino del 2003 in segno di dissenso all’indirizzo di Giambattista Pastorello, ma nelle proporzioni fu qualcosa di nemmeno lontanamente paragonabile a quanto si sta per materializzare. Fu allora una porzione del Bentegodi a rimanere deserta, non gran parte dello stadio.
Eppure in 115 anni di giorni brutti ne abbiamo vissuti eccome...Nemmeno ai tempi del grande imbroglio incarnato nei doppiopetti, nelle regimental, nei Rolex d’oro e nelle Mercedes fiammeggianti di quel manipolo di gentiluomini alla Carcarlo Pravettoni in sella alla Invest, ricordiamo da parte della tifoseria una mobilitazione così massiccia e netta. Da queste colonne, abbiamo sempre predicato equilibrio e preso le distanze da radicalismi estremi. Detto che noi il Bentegodi lo vorremmo vedere sempre pieno di gente a sostenere comunque la maglia gialloblù (la squadra è una cosa, la società è altro), questa volta comprendiamo le ragioni di una presa di posizione tanto tranchant. Quando composta e civile, la voce del dissenso è un valore aggiunto.
La protesta che andrà in scena la prossima settimana è figlia del tempo, dell’esasperazione e di animi esacerbati da una presidenza che nell’ostinazione a spingere la polvere sotto i tappeti, pare stia facendo di tutto per non capire dov’è e cos’è. Proviamo a spiegarlo una buona volta. Il Verona, direbbero in Catalogna, è més que un club. È una tribù, una comunità; il Verona, a differenza di tante altre squadre, ha un’anima e un’identità alla difesa delle quali la sua gente tiene di più di qualsiasi altra cosa, anche dei risultati. Il Verona è soprattutto cuore; citando Marcelo Bielsa (sarà pure un po’ loco, ma come le dice lui le cose non le dice nessuno), «il calcio è emozione, non denaro»; il Verona è quindi dire «Ti amo anche quando vinci». Ma il Verona è soprattutto partecipazione, come la libertà cantata da Giorgio Gaber. Questo è ciò che Maurizio Setti ancora non ha capito, o fa finta di non capire. Che i rapporti con la tifoseria siano ai minimi, lo si sapeva da tempo, e non servivano certo i quattro ceffoni di Brescia ad evidenziarlo. Il grave errore è stato quello che ne è seguito.
A metà novembre il Verona attuale non è in linea con i programmi estivi, scivola in basso a metà classifica, appiattito su numeri indicatori di un valore che a nostro parere non è quello reale della squadra. Fabio Grosso si è perso in labirinti tattici, non è riuscito a trasmettere energia, ha utilizzato la rosa ricorrendo con eccessiva disinvoltura alle rotazioni, e ha infine sconfessato persino il suo credo nel tentativo di trovare invano una quadra (vedere Pazzini e Di Carmine insieme, solo fino fino a poche settimane fa era un’eresia). Non solo non ha trovato una soluzione, ma è stata la squadra stessa a dimostrare di essersi smarrita. Tutto l'ambiente che gravita attorno all' Hellas Verona era per una volta unito in blocco nel chiedere a gran voce alla società un gesto deciso che spezzasse le redini all’inerzia.
In questa vicenda a Setti è stata in qualche modo tesa una mano. Il sacrificio di Fabio Grosso, persona stimabilissima ma pure un professionista che ben conosce i rischi del mestiere, era l’occasione non tanto per ricomporre una frattura tra piazza e società difficilmente sanabile, quanto per dare un minimo segnale di riavvicinamento tra le parti. Setti aveva quindi sui piedi un comodo calcio di rigore, che ha sfruttato tanto bene quanto fecero Zaza e Pellé agli europei di due anni fa. Non che dovesse eseguire alla lettera tutto quanto gli si chiedeva (il presidente è lui e la facoltà di fare le scelte spetta a lui e ai suoi collaboratori), ma perlomeno ascoltare la vox populi, questo avrebbe secondo noi potuto e dovuto farlo. Peggio, ha dato notizia della sua non-decisione attraverso un comunicato (pur ben scritti sono sempre pezzi di ghiaccio), quando sarebbe invece stato opportuno metterci la faccia e dire qualcosa. È stata insomma la classica storiella di un’ennesima occasione persa. Ha prevalso ancora una volta il gioco del silenzio. Cosa che al Verona si ripete con troppa frequenza. Cosa che al Verona bene non fa. Cosa che anzi, farebbe incacchiare un genio anticonformista come Giorgio Gaber. E con lui, pure noi.
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