Attenti al lupo, che a quanto pare sa ancora far razzie nel suo terreno di caccia preferito, l'area di rigore. È tornato, il lupo: ieri lo abbiamo visto lì in agguato nella penombra fiutare la preda e quando l'ha vista vicina a portata di fauci, in tre mosse l'ha azzannata e fatta a polpette. Insomma, perderà pure qualche pelucco, ma il vizio da predatore, quello no. È stato il gran giorno di Giampaolo Pazzini. Un pomeriggio così, non lo viveva da tempo o forse non se lo ricordava nemmeno: tripletta (la prima con il Verona. L'ultima, quando ancora vestiva la maglia del Milan), l'aurea del primattore in campo, incomprensioni, baruffe, e malinconici mugugni dell'ultimo tribolato anno spazzati via in soli novanta minuti. L'ultimo suo gol su azione messo a segno in gialloblù risaliva al 22 aprile del 2017, una zampata a Bari in serie B. Bentornato.
E pensare che l'ex esiliato a Levante neanche doveva giocare. Lo ha deciso il fato: nell'immediata vigilia di Verona-Carpi, Di Carmine accusava un risentimento muscolare. Meglio non rischiare. Via libera al vecchio bomber. Il resto è presto detto: un paio di buone occasioni, due rigori cacciati in rete con la freddezza di un cecchino esperto, e un gollonzo di rapina. Mica nulla di straordinario, ma semmai il lavoro per cui è pagato lautamente. Un lavoro portato a termine benissimo, da navigato ed esemplare professionista. Tre pere, e pallone a casa da tenere in famiglia per la gioia del pargolo Tommaso. Quadretto perfetto, manco fosse il finale di una commedia americana diretta da Frank Capra. Ora però viene il bello. La cavalleria ha subito sellato i quadrupedi ed è uscita nella brughiera al galoppo all'offensiva. Quando tornerà Di Carmine (speriamo non sia nulla di grave e che sia presto di nuovo in gruppo), come la mettiamo? Incalzato dal tormentone mai sopito, Fabio Grosso ha glissato inerpicandosi sui sentieri di un panegirico espresso in «pallonese» fluente. Non vorremmo trovarci al suo posto. Ma d'altronde, che altro avrebbe dovuto dire il poveretto...? Lo sa anche lui di aver a che fare con un gran bel grattacapo.
Grosso non ha escluso che i due possano giocare insieme uno a fianco all'altro, magari con il fantasioso Laribi a sostegno sulla trequarti. Soluzione (già da noi ventilata, ma con uno tra Cissé o Matos - ieri tra i migliori - seconda punta) possibile secondo noi a scampoli; vedremo. In tempi non sospetti, vale a dire un paio di mesi fa, quando la squadra agli ordini del suo nuovo giovane allenatore muoveva le prime sgambettate a Primiero, scrivemmo come Pazzini per ovvie ragioni anagrafiche e conseguenti scricchiolii strutturali facesse molta fatica a essere protagonista in serie A in una squadra dedita a difesa e contropiede (tesi confermata peraltro anche durante i mesi del confino a Levante), ma che in serie B, supportato da un gruppo di qualità votato a far gioco e a riversarsi stabilmente nella metà campo avversaria, avrebbe potuto ancora essere un giocatore importante in grado di dire la sua e anche di più. Una questione di fisiologica geometria, o meglio di metri: in serie A te ne devi sobbarcare una cinquantina a elastico, in B manco la metà: stai lì e aspetti il pallone buono sui cui fiondarti, perché sebbene l'anagrafe non ti sia amica e qualche acciacco ce l'hai, mai hai dimenticato come si fa a spedirlo nel sacco. Detto, fatto.
Pazzini è al quarto anno al Verona. La statistica non mente e dice che sotto l'ala dell'Arena in A per un motivo o un altro ha stentato, mentre in B ha dimostrato di essere un valore aggiunto. La storia, che sulla statistica e i numeri fonda le proprie tesi, mostra un'altalena tra risorsa e problema. Veniamone fuori una volta per tutte, dall'inghippo maligno. A 34 anni e qualche ruggine Pazzini è un lusso da centellinare a chiamata: Clint Eastwood teneva la sua Gran Torino in garage lustrandola ogni giorno e sfoggiandola luccicante in strada ogni qual volta ne avesse voglia e lo ritenesse opportuno. Uno spettacolo. Tutti devono mettersi nella zucca, anche lui stesso, che per il bene del Verona Giampaolo Pazzini deve essere una risorsa e mai un problema. Quando usciremo dall'equivoco, ne trarremo enorme beneficio. La società ha fatto le sue scelte. Ha battuto la concorrenza di mercato investendo quest'anno su Di Carmine. Ora punta legittimamente su di lui. Sebbene qualche piranhetto da tastiera ci trovi gusto, creare un inutile dualismo sarebbe sciocco, oltre che delittuoso e profondamente ingiusto. A Di Carmine va dato ciò che è suo è per cui è stato fatto arrivare. Diversamente, lo si poteva lasciare a Perugia o prendere altre strade senza ingarbugliargli la carriera. La possibilità gli va data. Sarà poi il campo a dire.
Dovesse rientrare in garage, siamo certi che alla prossima occasione ritroveremmo la nostra Gran Torino di nuovo in gran lustro e bella rombante. L'asso, lo si può tranquillamente tenere nella manica. L'importante è averlo trovato e sapere nel prossimo futuro di averlo. Va speso con parsimonia col contagiri. Così fosse, non vediamo dove sia il problema. Vige una vecchia buona norma: nessuno «deve» giocare a prescindere, ma gioca se lo merita e dimostra di star bene. Decide l'unico che ne ha facoltà, l'allenatore. E la Gran Torino allora? Tranquilli, noi l'abbiamo, gli altri no. Basta e avanza, tanto sappiamo che verrà ancora buona. Lo abbiamo capito ieri, ed è stato pure molto bello.
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