Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, così sentenziava Ludwig Wittgenstein nella seconda parte del suo tractatus. Certo, il filosofo si riferiva all'impossibilità da parte del linguaggio umano di indagare la metafisica, di analizzare o anche solo descrivere tutto ciò che non accade, che non ha un'essenza fattuale. Ma se ci sforziamo, per la fede che ancora ci resta o anche solo per il sadico diritto di sapere, di trovare le ragioni di questa disastrosa annata dell'Hellas, ci sembra quasi di non poterne parlare.

Partiamo da Setti: il budget limitato, la fiducia incondizionata in un ds e in un allenatore dimostratisi non all'altezza. La partenza di Luca Toni e il “caso Cassano” che porta discredito sull'ambiente, il sorriso amaro che nasconde l'imbarazzo sul volto dei tifosi. Pazzini, ormai ai margini del progetto, ceduto a gennaio insieme a Bessa. La fortuna del centrocampista a Genova, mentre all'Hellas arrivano Petkovic e Matos; giocatori discreti certo, ma non supportati dai grandi numeri o dall'esperienza.

E si potrebbe andare avanti ancora per molto, ma tutto questo è storia recente. Lo sappiamo tutti, è fattuale. Ciò che veramente lascia sgomenti è il non detto, la nave lasciata affondare in silenzio aspettando il processo. Il verdetto scandito con diverse giornate di anticipo ma sussurrato a bassa voce, quasi che fosse una colpa aver perso la speranza, perché, in fondo, la matematica non ci condanna.

Ecco allora Pecchia salire sul banco degli imputati, a testa alta e fiero, esternare tutta la sua amarezza per la retrocessione. Ma che si vuole? la squadra non era con lui, la squadra aveva difficoltà a reggere la pressione nelle partite importanti, la squadra era stata costruita a budget ridotto, la squadra pareggiava poco perché voleva sempre vincere. O tutto o niente insomma. Eccolo lasciare l'aula assumendosi la sua parte di responsabilità, recitando come un mantra che il tempo ha svuotato di significato, il mea culpa. A vederlo sembra quasi un eroe, vien voglia di abbracciarlo e rendergli i suoi peccati, lui, rimasto solo a sorreggere il peso di una retrocessione di cui accusa i colpi, abbandonato dal ds Fusco immolatosi per la causa.

Ma tutto questo non basta, non basta il finto perbenismo di certi “c'è amarezza per la retrocessione”, “adesso bisogna guardare al futuro” o “ce l'abbiamo messa tutta”.

Se la squadra non gira, se salta ogni schema e non è possibile acquistare nuovi giocatori, solitamente ne paga le conseguenze l'allenatore. C'era chi diceva che "esistono due tipi di allenatori: quelli esonerati e quelli che verranno esonerati"; è la legge non scritta del calcio, perché anche solo per dare una scossa all'ambiente, cambiare l'allenatore diventa talvolta l'unica soluzione.

Basti guardare all'altra sponda di Verona, il Chievo, che esonera Maran dopo 4 anni. Non si può di certo addossargli le colpe del difficile momento della squadra, non tutte, ma la dirigenza un segnale doveva pur lanciarlo. E allora si cambia, per il bene della squadra.

Setti invece ha preferito il silenzio, Fusco, che nel suo piccolo ha avvertito l'esigenza del cambiamento, ha scelto le dimissioni, Pecchia l'anonimato. Il giudizio sulla squadra si evince dalle parole di Diego Abatantuono che, commentando a Quelli che il calcio le prestazioni di Milan e Inter contro, rispettivamente, Hellas (4-1) e Udinese (0-4), ironizza: "Importanti vittorie contro queste squadre che non mollano mai".

Domenica sarà proprio Hellas-Udinese, con i friulani ancora in lotta per la salvezza. Al Verona non resta che ringraziare i tifosi e provare, anche se ormai pare di sprecare fiato, ad onorare la maglia.

 "Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere": e così facciamo, perché ancora non capiamo le cause di questo assurda annata.

Ma una cosa possiamo dirla: bisogna avere il coraggio di guardare negli occhi i tifosi e chiedere scusa, spiegare le ragioni di certe scelte e assumersi, ma questa volta per davvero, le proprie responsabilità.
    

Sezione: Editoriale / Data: Gio 10 maggio 2018 alle 17:30
Autore: Davide Bellocchio
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